Mio figlio me l’ha detto in terza elementare, ho frenato le ansie e detto “ok, vai”. La richiesta di indipendenza è un tasto dolente per tutti i genitori, i timori parecchi. Ma come ci dice la psicoterapeuta, lasciarli andare (con regole e accordi) è l’unico modo per fargli spiccare il volo
«Qual è la sfida più grande di noi genitori?», ho chiesto tempo fa a Stefania Andreoli, una delle più importanti psicoterapeute dell’adolescenza e autrice, tra l’altro, di Mio figlio è normale? (Bur Rizzoli). «Permettere ai figli di diventare», la sua risposta. Da allora porto questa frase con me, me la ripeto spessissimo, quando per mania di controllo voglio fare al posto loro, dei miei figli, quando sento di doverli proteggere ma risulto eccessiva, quando l’ansia sale alle richiesta di nuovi spazi, di autonomia.
A ottobre della terza elementare Lorenzo mi ha chiesto di andare a scuola da solo. Presto, sì. La scuola è a 150 metri da casa, deve attraversare una strada con semaforo, posso controllarlo dalla finestra quasi fino all’ingresso. Quasi mi veniva da dire “ma come ti viene in mente a 8 anni?”, mi sono trattenuta. Ne abbiamo parlato, era davvero convinto di volerlo fare, nella mente mi ronzavano le parole della dottoressa Andreoli e ho detto “ok, vai”. Per il primo periodo uscivo qualche attimo dopo di lui, lo seguivo, ci salutavamo da lontano. Esercizi pratici di indipendenza. Poi, dopo un mese, ho iniziato a seguirlo dal balcone. Inutile dire che per tante mamme ero matta, troppo presto, ma non ti viene l’ansia, e se succede qualcosa?
Ho seguito l’istinto, ascoltato la richiesta di mio figlio, avuto ragione. Oggi Lorenzo fa la quinta elementare ed è parecchio autonomo rispetto ai suoi compagni. Va a calcio e a catechismo da solo, torna a casa a cambiarsi per il basket mentre sono con il fratello più piccolo, va al supermercato di fronte a casa per piccole spese. Mi fido di lui.
Ma la fiducia, come porre le basi per l’indipendenza dei figli, è roba difficile, specialmente quando si vive in grandi città come Milano e senti che i pericoli sono a ogni angolo. E quando un’amica, figlio in prima media, mi ha detto che no, io vado ancora a prenderlo da scuola anche se e lui si vergogna, perché non me la sento di lasciarlo solo, non sono ancora pronta, ho chiamato Valentina Ambrosio, psicoterapeuta esperta in adolescenza, per fare il punto sulla questione autonomia, emancipazione, strategie per lasciare che i figli crescano senza tenerli attaccati per sopperire le nostre apprensioni.
Quando i ragazzi iniziano ad avere bisogno di indipendenza?
Ogni ragazzo sviluppa l’esigenza di autonomia in tempi differenti. C’è chi già a 9-10 anni inizia a chiedere di voler andare a scuola da soli, voler cucinare, e a voler fare da soli; c’è chi invece, aldilà di vincoli e risorse pratiche e personali, è più restio e lento nel sentire questo bisogno. Come in tutto, ogni bambino o ragazzino ha i suoi tempi, e vanno rispettati.
Perché è così importante favorire l’autonomia?
Perché i ragazzi, oggi in modo particolare, hanno un estremo bisogno di sicurezza. E aiutarli a fare da soli, a essere gradualmente indipendenti, responsabilizzarli è una grande iniezione di autostima. Gli manda il messaggio che sono in grado, che sono competenti, che possono farcela anche da soli e che sbagliare è umano e anzi, permette di imparare e crescere.
Ma come monitorare i comportamenti dei ragazzi senza essere invadenti?
È difficile! Il modo migliore è cercare di farli parlare, di far sì che siano loro ad aprire il dialogo quando hanno voglia, anziché “stanarli” o tirargli le parole di bocca. Insomma, dargli fiducia. Accettare che sono adolescenti e su alcuni aspetti non si confideranno con noi, ma indirizzarli e invitarli a condividere con altre persone di riferimento, insegnati, parenti, fratelli maggiori, allenatore, psicologo, può essere una strategia di “controllo indiretto”.
Che cosa le raccontano i ragazzi?
Che si sentono oppressi, mi dicono: “non ho i miei spazi, i miei genitori mi tolgono il respiro”, o ancora “mi stanno addosso, non mi lasciano fare, non mi lasciano sbagliare”. Sono frasi che devono far riflettere, ci stanno dicendo che non gli permettiamo di crescere.
Le porto l’esempio del pranzo, di cui i ragazzi mi parlano spesso. Loro, tornati da scuola alle medie, vorrebbero prepararselo da soli, e invece no, è già tutto pronto, ci ha pensato la mamma, al massimo devono riscaldarlo al microonde. Ma davvero pensiamo che un ragazzo a 12-13 anni non sappia prepararsi un piatto di pasta? E invece non conosco un solo ragazzo che si prepara il pranzo da solo. Renderli autonomi è questo, farli sperimentare, fare in modo che si arrangino, che mangino quello che c’è in frigo, o la libertà di invitare un amico a pranzo e improvvisare pasta con l’olio e il parmigiano. Magari sarà pessima, ma rideranno insieme e il cuoco di turno sentirà comunque di aver fatto qualcosa da solo, ne sarà entusiasta e la prossima volta farà meglio.
In che cosa sbagliamo?
Nell’ipercontrollo, anticipiamo le loro esigenze. Certo che è più facile lasciare tutto pronto perché così non sporcano la cucina, o rifargli la camera perché lui o lei non la rifà per bene, ma così alziamo un muro difficile poi da scavalcare. Soffrono molto la mancanza di fiducia, soprattutto quando non sono in casa e andiamo a sbirciare nei cassetti della camera da letto, che per loro è un regno invalicabile, il regno nel quale stanno sperimentando l’autonomia e il vedersela da soli.
Ma come si frena l’ansia dei genitori?
Cercando equilibrio per frenare la paura, perché è più che normale che in preadolescenza e adolescenza i ragazzi cerchino spazi al di fuori del contesto familiare. Ha ragione lo psichiatra Paolo Crepet quando definisce i genitori della generazione dei millenians “spazzaneve”, perché cercano spesso di liberare la strada dagli ostacoli o comunque spianarla in una società come quella attuale, estremamente complessa e pericolosa. Ma occorre bilanciare le proprie ansie (legate al proprio vissuto, al proprio carattere, al modo di educare e essere educati) e la reale condizione dei figli. Bisognerebbe essere più lucidi e guardare con un po’ più di consapevolezza e razionalità e contestualizzare ogni singola situazione.
Ma come mai siamo così preoccupati di lasciargli fare le prime uscite con gli amici nel quartiere, e badiamo meno a quello che cercano online o alla loro vita sul web?
Perché siamo abituati a pensare che il pericolo provenga dall’esterno, dalle cattive amicizie, dal rischio di conformismo e di compiere, per seguire il gregge e farsi accettare, comportamenti devianti. Ma in realtà in rete il rischio è potenzialmente più pericoloso, supera limiti fisici e pratici, è più subdolo e meno evidente.
Quando arrivano alle scuole medie, chiedono di tornare a casa da soli, magari di fermarsi a pranzo fuori con gli amici. Giusto assecondarli?
Dipende, direi è utile assecondarli. Può essere una richiesta corretta e adeguata, poi andrebbe compreso come si incastra con gli impegni familiari di altri fratelli e sorelle, con i compiti e lo sport e altro, e con i tempi e la logistica degli spostamenti. Ma è certamente necessario che si instauri una fiducia reciproca.
Esempi pratici?
In prima media giusto inizino a tornare a casa da soli, se la scuola è nel raggio di 10-15 minuti da casa, se invece serve che prendano i mezzi pubblici meglio andarli a prendere per un periodo e fare in modo che prenda sicurezza con il percorso. Stessa cosa se qualche volta chiedono di rimanere a pranzo nel bar vicino alla scuola con gli amici, sono le prime esperienze di autonomia e libertà e, stabilendo delle regole, vanno accettate. Durante i fine settimana ok alla passeggiata al parco o nel quartiere al pomeriggio, mentre per le uscite serali con un orario di rientro stabilito, aspetterei la terza media, sapendo dove va, con chi esce. Concedere con gradualità, tutto non è possibile, ma nemmeno nulla, anche perché poi scattano le bugie che non giovano a nessuno.
Organizzarsi, dare regole e insieme lasciarli diventare adulti, pare sia questo il mix che funziona?
Dare le regole (non troppe e chiare), serve per dare una direzione ai loro comportamenti, organizzarsi è essenziale per responsabilizzarli e renderli partecipi del ménage familiare, lasciarli crescere è il regalo più grande e più difficile da confezionare! Da stabilire sono le misure con cui questi elementi vanno mixati tra loro.
Come proteggerli senza tarpargli le ali?
Se conoscessimo il segreto ci avremmo già scritto saggi su saggi! La metafora che uso spesso con i miei pazienti è quella di un viaggio, loro decidono dove andare, che obiettivi raggiungere, in che modo e con che tempi. Io cerco, laddove è necessario, di ridimensionare le aspettative grandiose, accelerare o rallentare il passo, inserire altri traguardi da raggiungere, smussare qualche pretesa eccessiva, fornirgli una prospettiva e un approccio alternativo di affrontare i problemi lungo il cammino. In sintesi: stargli al fianco e non davanti, fargli sentire la presenza ma non pressarli, ascoltarli e non giudicarli.
Tre cose che i genitori dovrebbero fare per incoraggiarli verso l’autonomia.
Dargli l’esempio, fargli da modello affinché imparino fin da piccoli a essere in grado di fare da soli facendosi affiancare gradualmente.
Poi, bisogna dotarsi di grandissima pazienza e menefreghismo, nel senso rispettare i tempi e i bisogni di tutti, senza fare confronti con i figli degli altri o con sé stessi. Infine, accettare di non essere perfetti e che si può, per troppo amore o paura, sbagliare come genitori. Provare a parlare e condividere con i figli, comprendere le esigenze di tutti aiuta sempre a trovare equilibrio.
Articolo a cura di Benedetta Sangirardi in collaborazione con || Valentina Ambrosio : psicologa e psicoterapeuta sistemico relazionale. Su Ig è @la_psicologa_degli_adolescenti