Nessuna di noi è in grado di rimanere indifferente difronte ad una tragedia che riguarda un bambino. Mai. L’ultima ha colpito la piccola Elena, di nemmeno 5 anni, uccisa dalla madre: gelosia? raptus? intenzionalità? Tante le domande che ci siamo poste, poche le risposte. Sulla questione abbiamo preferito chiedere parere ad una piscologa, Marina Zanotta
Che cos’è una madre? Se ci soffermassimo solo alla definizione del vocabolario Treccani scopriremmo che madre è colei che ha concepito, partorito e accudito il proprio figlio; idealmente la figura perfetta che costella i sogni più dolci e rassicuranti del nostro immaginario. Ma una madre non è solo questo: una madre è frutto della società in cui vive, di stereotipi di genere sul concetto stesso di maternità (è uno stato di grazia, DEVI esserne felice), di costrutti educativi positivi o distruttivi che le sono stati tramandati dalla sua stessa famiglia di origine; è l’eco dei mille consigli richiesti e dei settemila non richiesti, delle notti insonni e della perdita del lavoro per il semplice fatto di essere diventata madre; è una figura che si muove leggera in un matrimonio felice o che è schiacciata al suolo da una relazione abusante. Una madre è portatrice della sua stessa vita, prima ancora che della vita della sua progenie, ed è, prima di tutto, una persona con le sue luci e con le sue ombre; per questo motivo una madre può anche essere l’esatto opposto di quanto speriamo, e la cronaca di questi giorni, tristemente, ce lo ricorda: può anche essere colei che uccide i suoi figli, come ci descrive il complesso di Medea, condannandosi all’infinito ad incarnare questa terrificante ambivalenza, creatrice-distruttrice del concetto stesso di vita.
Il come si arrivi a questo è un processo lungo e complesso che non può essere affrontato senza la consapevolezza che la responsabilità sia anche della comunità in cui queste madri si muovono: l’infanticidio è un fenomeno più diffuso di quanto pensiamo; i dati italiani raccontavano di circa 25 figlicidi all’anno sul territorio italiano, compiuti dalle madri nel 90% dei casi e quasi mai legati a raptus improvvisi, ma ad un crollo progressivo di molteplici fattori che vanno dalla salute mentale delle donne, a situazioni pregresse di violenze domestiche assistite o vissute in prima persona, condizioni socio-economiche svantaggiose, separazioni conflittuali dal partner. A tutto questo si aggiunge la quasi totale mancanza di strumenti di presa in carico e cura delle situazioni socialmente più compromesse da parte dei servizi di salute mentale e dei servizi sociali territoriali, carenza che non deriva dalla non competenza del personale specializzato, ma dalla mancanza di fondi che rendono impossibile la progettazione di interventi di prevenzione mirati e continuativi e la cura delle situazioni maggiormente compromesse. In alcuni casi dipende anche dalla collocazione geografica della famiglia, come racconta l’Indice regionale sul maltrattamento all’infanzia in Italia 2022, redatto da Cesvi nel documento “Crescere al sicuro” che esamina la vulnerabilità al maltrattamento dei bambini nelle singole regioni italiane, attraverso l’analisi dei fattori di rischio presenti sul territorio e della capacità delle amministrazioni locali di prevenire e contrastare il fenomeno tramite i servizi offerti e che vede ben quattro regioni del Sud Italia come quelle a maggior criticità rilevata rispetto ai 64 criteri di indagine previsti dall’indice
(fonte https://www.minori.gov.it/it/node/8093).
Non è nemmeno così semplice la risposta giusta. Buona parte della colpa sta nel silenzio assordante che circonda la realtà delle famiglie in cui si verificano tragedie simili: silenzi fatti di stereotipi di genere “se sei una madre devi essere felice e accudente”, se scappa uno schiaffo sarà educativo poiché non è pensabile che una madre maltratti il suo bambino; eppure accade e la gente si gira dall’altra parte e tace.
Silenzi fatti di madri lasciate sole davanti ad una depressione post partum o davanti a problemi di salute mentale di altro genere, incluse le psicosi o le dipendenze da sostanze, poiché le madri devono essere perfette e sempre sorridenti e le lacrime o le notti insonni sono additate come esagerazioni, l’isolamento sociale e i comportamenti sintomo di un problema di salute mentale sono additati come esagerazioni e, ancora una volta, ci si gira silenziosamente dall’altra parte. Il silenzio è fatto anche di storie di violenza intra-familiare in cui le relazioni degli adulti si sgretolano e uno dei due partner vede tradire l’aspettativa di una vita perfetta su cui aveva investito il proprio futuro e questo dolore, se non accolto e curato in modo professionale, può trasformarsi in un fattore di rischio all’interno del quale un genitore può arrivare a decidere di distruggere tutto ciò che rappresenta quel futuro ormai perso, figli inclusi. Ma questo non è pensabile agli occhi di una società che vede la famiglia come il punto di riferimento sacro e non contestabile ed è così che, di nuovo, si catalogano frasi/atteggiamenti e comportamenti aggressivi come “esagerazioni” e, in omertoso silenzio, ci si gira dall’altra parte. Certo, come accennavo prima, i silenzi assordanti sono anche quelli delle istituzioni che decidono di non sostenere la genitorialità sana e consapevole, disinvestendo fondi e risorse dedicabili a servizi territoriali di prevenzione e formazione sulla genitorialità, ad esempio i consultori, o non prevedendo sportelli di ascolto e di aiuto per famiglie che vivono situazioni di disagio; istituzioni che disinvestono fondi e risorse rispetto alla presenza e alla formazione permanente di operatori sul territorio (pediatri, psicologi, educatori, assistenti sociali, pedagogisti, insegnanti, dirigenti scolastici, ostetriche, forze dell’ordine ecc.) in grado di individuare in tempo i fattori di rischio e i segnali di allarme e trasformare il silenzio assordante in un progetto di welfare comunitario e di tutela che includa la prevenzione, l’intervento e l’assistenza sul lungo termine.
In questi giorni si è parlato della necessità di monitorare e sostenere le donne a partire dall’adolescenza, età chiave per molti fattori tra cui l’educazione al rispetto, all’affettività e alla sessualità consapevoli; non dimentichiamoci, però, che le future donne non spuntano dal nulla già adolescenti: ogni persona nasce in una famiglia, attraversa prima l’infanzia e poi l’adolescenza per approdare, infine, nell’età adulta in cui, forse, vorrà decidere di diventare genitore a sua volta, in un eterno cerchio che potrebbe essere potenzialmente tanto generativo quanto distruttivo, molto dipenderà da quanto assordante sarà stato il nostro silenzio.
Marina Zanotta è Psicologa e Psicoterapeuta specializzata in genitorialità ed età evolutiva; è la responsabile dell’area materno infantile di Associazione Alice Onlus di Milano. È autrice per Rizzoli con due pubblicazioni nella collana BUR Parenting: Stiamo Calmi (BUR, 2020) e A fare da soli si impara (BUR, 2021).